Sunday, March 6, 2016

Translation by Kitty Rock in Rome of Italian cli-fi essay by Claudia Durastanti

Negli anni Novanta, le reti commerciali italiane avevano l’abitudine mandare in onda disaster movie a sfondo naturale per arginare l’emorragia estiva di spettatori.
 
''LA FINE È UNA COSA PRIVATA'' (in Italian) by Claudia Durastanti
ENGLISH below by Kitty Rock in Rome. THAN K YOU, Dr ROCK!
 
RE:

Ambientati negli Stati Uniti ma con qualche concessione al Messico e all’Australia, alternavano eruzioni vulcaniche a glaciazioni improvvise, o implicavano specie animali mutanti la cui estinzione era assicurata da fuochi purificatori di tipo esorcistico più che dall’applicazione di formule scientifiche.
Una decina di anni dopo, il protocollo di Kyoto, Al Gore e la fine del calendario Maya hanno trasformato lo scenario: le conseguenze percepibili del climate change e la paranoia che ha spinto persone particolarmente sensibili alla riduzione delle risorse a creare bunker nei deserti – questa volta non per l’olocausto nucleare, ma per una congiuntura astrologica rivelatasi fallace e tuttavia capace di disegnare interi mondi sotterranei – ha spinto le produzioni cinematografiche hollywoodiane o indipendenti a trasformare i disaster movie in pellicole con un sottotesto esistenziale nel migliore dei casi, e religioso nel peggiore.
 
During the  90's the Italian Tvs used to broadcast natural disaster movies with the aim of containing the hemorrhagic summer crowd. Set in the USA, with some incursion into Mexico or Australia, they alternated volcanic eruptions to unexpected glaciations, sometimes involving mutant animals whose extinction was assured by purifying fires (generally related to exorcism) rather than the application of scientific formulas. A decade later, Kyoto's Protocol, Al Gore and the end of Maya's calendar have transformed our scenario: the perceptible consequences of climate change and the paranoia, pushing those particularly sensitive to the increasing shortage of our resources to create desert bunker - this time not because of nuclear holocaust but for an astrological conjunction which has been revealed as false, yet still capable of drawing entire underground worlds - have convinced both hollywood and the independent cinematic industry to transform disaster movies into films with an existential subtext, in the best cases, or religious overtone, in the worst.
 
disaster movie di prima generazione si basavano su una premessa implicita ma fondamentale: tutto questo è terribile, ma non sta succedendo a te, e non è neanche davvero possibile. C’era un misto di schadenfreude, autocompiacimento per la propria distanza da ghiacciai, faglie e vulcani e senso di immunità. L’immaginario di questi film era spettacolare ma prevedibile, condiviso e innocuo.
Da
 The Day After Tomorrow del 2004 in poi, la componente escatologica e moralizzante dei disaster movie è diventata endemica: la fine di tutte le cose non solo è sempre più possibile, ma anche carica di implicazioni comportamentali ed ecologiche, e l’ingenuità del linguaggio viene sacrificata a vantaggio di una rappresentazione cupa e conflittuale della salvezza.
First generation disaster movies were based on an implicit yet basic assumption: all of this is terrible, but it is not happening to me, and actually it is not even possible. there was a sort of Schadenfreude (lit. malicious joy), self-satisfaction and a sense of immunity in finding oneself far enough from glaciers, volcanoes and faults. From The Day after Tomorrow in 2004 on, the eschatological and moralising component of disaster movies has become endemic: the end of all things has not only become possible, but also pregnant of behavioural and ecological implications, while language naïveté has been sacrificed in the name of a gloomy and conflicting representation  of salvation.
Le inquadrature finali dei primi disaster movie erano seriali:dopo il sacrificio di parte dell’umanità, i sopravvissuti si pulivano il volto da residui di fango o emergevano eroici e anneriti dalle fiamme. Nel cinema apocalittico più recente, quando sopravvivono, i protagonisti tendono a suggerire un senso di sconforto per un’umanità che non si ravvede, e la soluzione è sempre temporanea; l’asteroide è stato neutralizzato, ma l’incedere sicuro di chi lo ha fermato scompare.
Le differenze sono tali che l’intera categoria andrebbe ripensata: un prodotto come San Andreas (legato all’omonima faglia) non ha niente in comune con Take Shelter di Jeff Nichols, se non la relativa impotenza dell’uomo davanti alla natura matrigna. Se il primo tutt’al più fa crollare le quotazioni del mercato immobiliare californiano, il secondo ridefinisce la nostra gnoseologia del disastro, dove l’apocalisse diventa privata quando non esclusivamente personale, una condizione permanente e senza climax. I nuovi cli-fi si basano sulla testimonianza: non è un caso che memoir di sopravvivenza e film che implicano la riscossa dell’individuo da sorti naturali o spaziali avverse escano a gettito continuo
the last film shots of the first disaster movies were serial: after the sacrifice of part of humanity, the survivors took the mud off their faces or heroically emerged from the fire covered in black. in the recent apocalyptic cinema, when they survive, the protagonists tend to suggest a sense of discomfort with the unrepentant humanity, and the solution is just temporary; the asteroid was neutralized but the solemn gait of the one who has stopped it, suddenly becomes an uncertain walk. the difference is so clear that the whole genre would deserve new thoughts: a product like San Andreas (related to the fault with the same name) has got nothing to do with Take Shelter by Jeff Nichols, except man's relative impotence in front of unkind nature. If in the former movie the Californian real estate market is led to crash, the latter redefines our gnosiology of disaster, where the apocalypse becomes private when not exclusively personal, a permanent condition without climax. the new sci-fi movies are based on testimony: it is not a case that surviving memoirs and films involving individual comeback from adverse natural or spatial events are continuously released.
 
L’arte e la rete hanno preso questa nuova forma di apocalisse e ne hanno ricavato prodotti dagli esiti alterni. Su Tumblr, il disastro come costante ha assunto il tono fondamentale del ruin porn e della detroitizzazione del mondo, mentre tra i film il cui appagamento estetico deriva dalla mancanza di risorse va annoverato Mad Max: Fury Road di George Miller, che dei primi disaster movie preserva la totale assenza di una connotazione morale, generando un risultato al limite tra avanguardia e ovvietà. In due ore di film, il pensiero non va mai a quello che ci ha fatto il petrolio ed è un risultato da considerare, perché il film parla solo di petrolio.
Nei vecchi blockbuster, il rischio della magniloquenza era sempre in agguato. Anzi, quei film erano interamente fondati su tale rischio espressivo, al punto da neutralizzarlo e garantire una visione priva di resistenza e fastidio, mentre in un pellicole come The Revenant di Inarritu l’incontrollabilità della natura viene espressa con un tale dispiegamento di mezzi e sottoposta a ore di post-produzione fino a diventare un mélange di National Geographic per nichilisti e approdare a una dicotomia uomo-natura bellissima e vuota che risulta ancora più improbabile di quella sperimentata da Pierce Brosnan quando cercava di difendersi dalla lava in Dante’s Peak.
 
E’ per i motivi elencati e i risultati provvisori raggiunti, che forse il lavoro più bello sull’intimità del disastro e della suo ripiegamento esistenziale è Such Mean Estate, un libro fotografico curato dall’artista Ryan Spencer per powerHouse Books nel 2015, nato da una collaborazione con Leslie Jamison – l’autrice di The Empathy Exams – che ne ha curato i testi.
Spencer ha trascorso circa due anni a visualizzare una settantina di pellicole sull’apocalisse e il disastro climatico, prima di isolarne dei fermo immagine e fotografare le inquadrature selezionate con una Polaroid Land Camera. Il risultato è una serie di istantanee in bianco e nero prive di volti in primo piano, spesso focalizzate su un dettaglio, di cui è difficile stabilire se appartengano a Children of Men o The Road.
Sono fotografie quasi sempre laconiche, gravi ma anche rarefatte, che tengono insieme i due elementi fondamentali dei
 disaster movie: la visione passiva e la testimonianza, la distanza dagli eventi ma la consapevolezza che sono sempre possibili – se non già accaduti.
È un’opera a tratti ambigua, perché può rivendicare la bellezza del tracollo affrancandola dal senso di colpa, e ha più a che fare con lo spazio negativo dei sogni con che con l’economia e la razionalità delle scelte quotidiane. Isolate e private di didascalie o testi in appendice, queste immagini sembrano in controtendenza con il dogma per cui un comportamento umano migliore genererà un mondo migliore; un approccio ecologico che condiziona inevitabilmente tanta filmografia e letteratura di recente produzione.
Ma il piacere che deriva dall’inoltrarsi nella
 wasteland viene sempre corretto da qualcos’altro, e Such Mean Estare non fa che rinnovare le domande sulle interconnessioni tra destino individuale e comportamento collettivo. Non approda a una visione prescrittiva di ciò che è bene e ciò che è male, ma non rinuncia a suggerire che il problema vada posto: non sono più tempi di scenari improbabili, e le possibilità dell’arte cambiano quando l’apocalisse è una parte integrale e stabile del presente, in cui alla memoria di come sarebbe finito il mondo, si sostituisce quella del mondo che finisce.
 
Spencer ha dichiarato di essersi ispirato a un libro di culto del fotografo giapponese Masahisa Fukase, The Solitude of Ravens, per il modo in cui questo lavoro ha messo in tensione natura e industria. In realtà le foto di Such Mean Estate sembrano più prossime a quelle di Kikuji Kawada, che in The Last Cosmology ha generato immagini catastrofiche (a loro volta influenzate dalla pittura di Emil Nolde) radicalmente cariche di empatia.
The Last Cosmology
Nel susseguirsi di psicosi da bunker e di allarmi sul climate change sottoposti a negoziazioni politiche; nell’alternanza di tsunami e di centrali nucleari che esplodono, di risorse senza alternative a cui un’umanità spinta ai suoi minimi termini bionici si oppone, c’è una domanda che viene in mente, ed è quella a cui forse risponderanno i disaster movie del prossimo futuro: Cosa succede ai culti dell’Apocalisse quando il mondo non viene distrutto?
E’ qualcosa a cui ho pensato un giorno di dicembre in cui a Londra l’aria era così calda e umida che sembrava stessero per piovere rane, e i miei colleghi parlavano di fiori che stavano spuntando nonostante il parere oltraggiato dei botanici, e il senso era che tutto stava per finire da lì a cinque minuti, ogni giorno, per l’eternità.
Un disagio che avvertivano tutti– un’anomalia climatica confermata dai notiziari e bollettini meteo– ma che si è tradotto, chissà perché, in un senso di desolazione sempre più rassegnato e solitario.
 

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